Deep Purple – retrospettiva

Articolo di Betelgeuse

Shades Of Deep Purple (1968)

Esordio su album per questo nuovo gruppo, nato da rivoli multi-direzionali, che comprendono vari generi e varie esperienze. Le due figure maggiori sono senza dubbio il chitarrista Ritchie Blackmore, turnista piuttosto quotato con alle spalle la militanza in un paio di gruppi, e Jon Lord, rigoroso organista classico ma con la passione per il rock e le nuove tendenze musicali. I musicisti che completano il quintetto che dà origine a questa magnifica avventura sono il funambolico, “occhialuto” batterista Ian Paice, il cantante, dalla voce particolarmente calda ed espressiva, Rod Evans, e il già quotato, nell’ambiente, bassista Nick Simper.

L’album di esordio ha una storia particolarmente frastagliata, vista la difficoltà per il gruppo di creare roba nuova (erano insieme da pochi mesi), ma volevano a tutti i costi un album, e così infarcirono il disco di cover, comunque di buona qualità. Eccezionale fu comunque il successo di “Hush”, incredibilmente arrivato nella top-ten americana, mentre discrete sono le cover di “Hey Joe” di Hendrix, e della beatlesiana “Help”, qui rallentata rispetto all’originale. Altri brani molto validi: “One More Rainy Day” e soprattutto la lunga “Mandrake Root”. Altre tracce, però, sembrano meno incisive. L’album fu registrato in appena 48 ore, probabilmente un record

Voto 6 e mezzo

The Book Of Taliesyn (1968)

Il grande successo ottenuto negli States, soprattutto con il singolo “Hush”, indusse il gruppo a cercare di intercettare l’onda lunga, e così fu programmata l’uscita di un nuovo album, a pochi mesi dal precedente, e nell’imminenza di un tour. Il nuovo album, uscito a Dicembre del 1968, intitolato “The Book Of Taliesyn”, è stupendo, tra le vette della loro carriera, con il senno di poi, ma non riesce a ripetere il successo del precedente. Tuttavia, il materiale è di altissima qualità, e non c’è che l’imbarazzo della scelta. Sono presenti quattro brani originali e tre covers.

Le covers comprendono ancora i Beatles (We Can Work It Out) e Neil Diamond (Kentucky Woman), ma la parte veramente preziosa dell’album è tutto il lato B, formata da “Shield”, “Anthem”, e una della cover più belle della storia della musica pop/rock, e cioè “River Deep Mountain High”, di Ike & Tina Turner, qui rielaborata in maniera entusiasmante. Da notare anche la curiosa, soprattutto per la ritmica elaborata, “Listen Learn Read On

Voto 8 e mezzo

Deep Purple (1969)

Esce all’inizio dell’estate del 1969 l’album omonimo, che è caratterizzato da una chiara impronta progressive, risultando il tentativo più fragoroso, per il gruppo, di re-inventarsi come “alfieri” di questo nuovo genere musicale. Ma è anche un disco in cui c’è più attenzione alla melodia, sacrificando un po’ i suoni e i ritmi acidi e fin troppo ambiziosi del, comunque, bellissimo album precedente. L’album segna un fallimento negli Stati Uniti (oltre la centesima posizione in classifica), dove il gruppo, precedentemente, aveva acquisito molta popolarità; va decisamente meglio in Europa, soprattutto in Germania, ma anche nella madrepatria Inghilterra, dove è decisiva, probabilmente, la curiosità per il successo americano.

I risultati alterni, di un disco chiaramente dominato da Jon Lord, e che ha solo discreti riferimenti all’hard rock, fa, dai dischi successivi in poi, riequilibrare la taratura artistica su una sostanziale parità circa le leadership di Lord e Blackmore, mentre si pensa già a un cambio di formazione che, di lì a poco, sarà effettuato. Tra i brani, da segnalare la suite di stampo rock-orchestrale, denominata “April”, la ritmatissima “Chasing Shadows” e la stupenda prestazione di Evans in “Blind”. Una sola cover, molto bella: “Lalena” di Donovan. Un vero e proprio shock la copertina, tratta da un’opera del pittore Hieronymus Bosch, addirittura rifiutata da molti negozi di dischi.

Voto 8

In Rock (1970)

Prima rivoluzione nel gruppo, con due cambi. Rod Evans, poco incline alla ormai prossima svolta hard rock del gruppo, e Nick Simper, sembra per motivi caratteriali, vengono sostituiti da due fantastici musicisti: l’incredibile cantante Ian Gillan e il bassista Roger Glover. Prima occasione, per i nuovi, di mettersi in mostra, è il concerto con la Royal Filarmonica di Londra, famosissimo e decisivo per farsi conoscere ulteriormente, e da cui sarà tratto un disco.

Tuttavia l’appuntamento atteso con impazienza per questi “nuovi” Deep Purple è la pubblicazione di un disco di canzoni vere e proprie; e, in tal senso, centrano pienamente il bersaglio, con uno dei masters, dei capolavori assoluti dell’hard rock. Album monumentale, già dall’indimenticabile copertina, che vede una virata fragorosa e, in alcuni casi, positivamente frastornante, verso un rock duro, di eccezionale qualità. La nuova voce è fantastica, con la caratteristica di acuti impressionanti, la coppia ritmica (Paice/Glover) è possente, e le tastiere di Lord, come sempre, imprescindibili. Ma il protagonista assoluto è Ritchie Blackmore che inaugura alcuni riff e alcuni assolo che saranno il marchio di fabbrica del gruppo, allora come in futuro. Tutti belli i brani, con tre che resteranno per sempre scolpiti nella storia del rock: “Speed King”, “Child in Time” e “Hard Lovin’ Man”.

Voto 10

Fireball (1971)

Disco diverso dal precedente e, in tutta sincerità, meno bello. Forse il gruppo tenta di sfondare nel mercato dei singoli, forse preferiscono controbilanciare la durezza dell’impianto delle canzoni del disco precedente con arrangiamenti più soft, forse desiderano diversificare avvicinandosi ad atmosfere prog, ma quello che viene fuori è un lavoro ibrido, in cui si alternano tracce di pregio ad altre mancanti di mordente.

Così nelle discoteche e nelle radio vengono passati il brano omonimo e “No no no”, piuttosto che altre tracce, sicuramente di maggior pregio, come la bella “Fools”. Tuttavia questo tentativo dà i suoi frutti a livello commerciale: l’album si piazza in uno dei primi tre posti dei Paesi più importanti d’Europa, Italia compresa, mentre, negli Stati Uniti l’accoglienza è più fredda, e sembrano lontanissimi i tempi del successo dell’album d’esordio, mentre sono passati soltanto tre anni. Molti sono affezionati a quest’album, ma un passo indietro c’è sicuramente, anche se si rifaranno abbondantemente in futuro.

Voto 7

Machine Head (1972)

Per molti il miglior album in assoluto dei Deep Purple. Opinione, secondo me, opinabile, come tutte le opinioni in ambito artistico, che si basano soprattutto su sensazioni oggettive. Certo, “Machine Head” è stato, probabilmente, il loro album più venduto, ma è inequivocabile il fatto che la maggior parte dei brani presenti saranno soppiantati dalle relative versioni “live” contenute nel monumentale album dal vivo “Made in Japan”, uscito appena dopo.

Disco comunque godibilissimo, dalla particolare qualità della registrazione, ottenuta mettendo dei materassi bagnati alle pareti di una lunga sala: ecco spiegato quel suono ovattato e curioso. Registrarono in un albergo, dopo che il casinò di Montreux, precedentemente affittato, fu reso indisponibile a causa di un incendio (con questo avvenimento che ispirò la canzone “Smoke On The Water”, forse la più famosa in assoluto della storia dei Deep Purple. Altri brani notevoli: la magnifica “Highway Star”, l’ipnotica “Lazy”, e la sorprendente “Pictures Of Home”, per anni sottovalutata, e ora generalmente rivalutata, soprattutto nei concerti. Copertina famosa e riconoscibile, con le facce stravolte da effetti grafici.

Voto 8

Who Do We Think We Are (1973)

Buon album, che ha il torto di rappresentare una fase buia dei Deep Purple, con i rapporti interpersonali ridotti al minimo, dovuti soprattutto alle polemiche e agli scontri tra i debordanti “ego” di Ian Gillan e Ritchie Blackmore. Questa situazione portò il gruppo a effettuare uno dei tour più freddi e asettici della loro storia, con show spesso senza entusiasmo, tanto che Gillan decise di mettere per iscritto che avrebbe lasciato il gruppo il 30 Giugno 1973, cosa che poi si verificò effettivamente.

I brani sono di buona vena, le esecuzioni curate, la varietà di stili e partiture persino maggiori rispetto a prima. A ciò va aggiunto un, ancora, buon successo commerciale, seppure inferiore al precedente. Da notare il secondo posto raggiunto in Italia. Strane, lunghe e dilatate le sessions di registrazione, con “Woman From Tokyo”, la canzone dell’album più famosa, incisa in una villa di Roma, in un clima di rilassatezza e, tutto sommato, divertimento, che contrastava con l’imminente cambio di formazione, che vede anche la fuoriuscita di Roger Glover, per motivi mai sufficientemente chiariti. Il brano migliore è probabilmente “Mary Long”, con “Rat Bat Blue” che segue a ruota,

Voto 8

Burn (1974)

Secondo robusto rinnovamento, dopo quello del 1969. Al posto di Ian Gillan entra David Coverdale, vocalist particolare, con una voce dai timbri blues, pescato da un annuncio, entrato dopo un’audizione avventurosa, quando fu colto da una crisi di nervi, avendo scoperto all’ultimo che si trovava di fronte ai Deep Purple. Il bassista arrivò direttamente dai Trapeze, gruppo abbastanza lanciato in quel periodo, ma non si poteva dire di no ai Deep Purple: Glenn Hughes era il suo nome. I due nuovi entrarono subito in totale sintonia con gli altri tre, e la risultante di tutto ciò fu questo splendido album, dal titolo “Burn”, presentato da una delle copertine più famose del rock.

Tanta la carne al fuoco, e il materiale musicale che esce fuori da quei solchi: si va dalla magnifica title-track, al granitico blues di “Mistreated”, da “Lay Down Stay Down”, fino allo stranissimo strumentale “A200”, di puro stampo progressive. Si nota un successo di vendite leggermente inferiore rispetto ai precedenti, forse dovuto sia all’assenza di Gillan, a cui milioni di fans erano legati, che al disco precedente, percepito generalmente come non completamente riuscito.

Voto 9

Stormbringer (1974)

Esce a Novembre del 1974 l’album più incasinato della loro discografia, ma di un casino creativo che scatena energie positive e tante trovate, anche se è l’occasione per delle tensioni tra alcuni membri, stavolta non per problemi di “ego” o di leadership, ma più propriamente tecnici. La diatriba maggiore è tra Blackmore e Coverdale, e oggetto della disputa pare che sia il testo del bellissimo “Soldier Of Fortune”, che forse il chitarrista voleva più “scenografico”, tipo “Burn” per esempio. Ma traspare nervosismo anche in Hughes, dotato di una gran voce, che vorrebbe giustamente più spazio, cioè più materiale cantabile. “Stormbringer” si rivelerà comunque un ottimo successo commerciale, con il nostro Paese ancora una volta protagonista.

In quanto ai brani, oltre al citato “Soldier Of Fortune”, brillano anche lo scatenato pezzo omonimo, poi la delicata “Holy Man” cantata da par suo da Hughes, e la scintillante “Lady Double Dealer”, che riporta in mente atmosfere alla “In Rock”. Album complessivamente riuscito, ma non basta a trattenere Blackmore, che lascia il gruppo nell’Aprile 1975, stanco della piega funky che stavano prendendo. Bella la copertina, stavolta senza le loro facce a corredo

Voto 7 e mezzo

Come Taste The Band (1975)

Pregevole album, con, alla chitarra l’americano Tommy Bolin, bravissimo chitarrista con alle spalle collaborazioni con grandi artisti. Il suo stile è fluido, “liquido” in gergo tecnico, ed è fautore di novità, come l’echoplex applicato alla chitarra, che permette la creazione di suoni nuovi e rivoluzionari. Purtroppo la sua attività è condizionata dalla tossicodipendenza, che sarà una delle cause delle enormi difficoltà che ebbe il gruppo in occasione della tournèè del 1975/1976, soprattutto nelle date in Indonesia e in estremo oriente, e quelle nella parte finale del tour stesso, in Inghilterra, tra l’altro osteggiato da una parte del pubblico, ancora affezionato a Blackmore. Tutto ciò, nonostante il valore dell’album, suonato da tutti i musicisti in maniera sopraffina, che però vede il tramonto delle velleità hard rock, e il trionfo della coppia Bolin/Hughes che adesso, nei fatti, traina il gruppo.

Eccellenti i brani, con “Gettin’ Tighter”, “Drifter”, “Comin’ Home” e “This Time Around” come vette. Nel Dicembre 1976 viene purtroppo a mancare Tommy Bolin, con il gruppo, in verità, già sciolto da qualche mese. Seguiranno 8 lunghi anni di stand-by per i Deep Purple, con i componenti che aderiranno ad altri gruppi.

Voto 8 e mezzo

Perfect Strangers (1984)

Raramente, nella storia del rock, una “reunion “è stata tanto fruttifera, artisticamente, e clamorosa, mediaticamente. Praticamente, l’attesa era uguale all’ipotetica speranza che Beatles e Led Zeppelin facessero lo stesso, cosa che poi non si è mai tramutata in realtà. Questa riformazione, dopo 8 lunghi anni, fu anche caratterizzata da polemiche e illazioni, secondo cui ogni membro del gruppo avesse ricevuto 2 milioni di dollari (del 1984!!! Quindi una cifra astronomica se rapportata a oggi), cosa smentita da Blackmore in un’intervista di quegli anni. La formazione è quella classica, quella dal 1969 al 1973, pertanto non furono coinvolti Coverdale e Hughes. Del resto milioni di fans erano legati ancora a quel gruppo ben preciso, e a Gillan in particolare. Il disco è molto buono, e recupera quell’energia dirompente dei lavori degli anni 70, ma con suoni adattati agli anni 80. I rapporti interpersonali sembrano ottimi, e ciò traspare anche dal tour relativo al disco, che comincia in Australia, quasi a mettere le mani avanti, nel senso che in caso di insuccesso, potevano riprovarci, e questa volta in zone a loro più familiari, come Europa e Stati Uniti.

Il brano omonimo è tra i migliori dell’album, ma in realtà ci sono diverse altre tracce di grande interesse, come “Knockin’ At Your Back Door”, o “Hungry Daze”, o anche la super adrenalinica “A Gipsy’s Kiss”. Ottima accoglienza negli U.S.A. (disco di platino), e nell’Europa centrale, mentre in Italia il clamore per questa rifondazione fu minore, ma il disco raggiunse comunque la top ten.

Voto 8 e mezzo

The House Of Blue Light (1987)

Ottimo lavoro, ma dalla genesi difficoltosa e dai risultati commerciali abbastanza contrastanti. L’album viene percepito come coraggioso e originale, ma anche frutto del tentativo di scrollarsi di dosso certi stereotipi del suono purpleiano. E, come se non bastasse, ricominciano a riaffiorare problemi, apparentemente in quiescenza, di leadership tra i soliti Blackmore e Gillan, come se non fossero passati ben 14 anni dal primo abbandono del cantante. La cosa si ripete, alla fine di un tour abbastanza freddo e poco “sentito” dai musicisti, con concerti, a volte, abbastanza scialbi.

Il disco è strano, ma tecnicamente eccellente, con diverse tracce che poco hanno a che fare con il repertorio e lo stile tipico del gruppo, ma anche con dei brani non propriamente riusciti, come “Dead Or Alive”, letteralmente odiato da Gillan, ma con addirittura l’album intero criticato a più non posso da Blackmore in qualche intervista dell’epoca. Probabilmente i due brani migliori sono “The Spanish Archer” e soprattutto “Strangeways”, poco etichettabili con il classico sound del gruppo. Degno di menzione anche il blues di “Mitzi Dupree”.

Voto 7 e mezzo

Slave & Masters (1990)

La storia si ripete: fuori Ian Gillan, dentro un nuovo vocalist, ma stavolta già famoso, essendo l’ex cantante dei Rainbow, cioè Joe Lynn Turner. Nonostante la timbrica pregevole e la notevole presenza scenica, il nuovo arrivato non riesce a far dimenticare Gillan, portando lo stesso gruppo a considerare l’ipotesi di avere fatto un errore, con questa sostituzione, anche se il tour risulta abbastanza seguito.

Viene scartata l’ipotesi di riconsiderare l’hard rock come spina dorsale della loro proposta, e infatti il disco presenta per lo più brani raffinati di pop, con la matrice rock secondaria. Forse l’obiettivo era sfondare nel mercato dei singoli, ma questo auspicio si verificò solo tangenzialmente. Tra le poche tracce ad essere veramente ricordate, vanno citate “Love Conquers All” e “King Of Dreams”, e anche la lunga e complessa “Fire In The Basement”.

Voto 6 e mezzo

The Battle Rages On… (1993)

Disco riuscito, di gran classe, che recupera parte dell’energia antica, dopo le ultime prove ondivaghe. E la novità, se vogliamo chiamarla così, è il ritorno all’ovile di Ian Gillan, voluto dai componenti dopo che Turner non aveva convinto del tutto. Tuttavia, i contrasti tra il cantante e Ritchie Blackmore erano tutt’altro che sopiti, e infatti Blackmore abbandonò il gruppo nel bel mezzo del tour, costringendo gli altri musicisti a contattare in fretta e furia due famosi chitarristi: Jeff Beck, che però rifiutò di unirsi a loro, e Joe Satriani, che invece accettò entusiasticamente, proponendo idee e “ripescaggi” di vecchi brani nel resto del tour, che proseguì perfettamente. Purtroppo, però, Satriani non fu confermato per l’album successivo in studio, anche per precedenti impegni contrattuali dello stesso.

Diversi i pezzi riusciti dell’album, grazie ancora a un Blackmore particolarmente in forma e ispirato, nonostante i contrasti interni: “Solitaire”, “Anya”, l’omonimo “The Battle Rages On” e diversi altri sono di un certo pregio, e ci consegnano agli anni 90 inoltrati un gruppo ancora vivo, con una fervente attività che dura fino ad oggi.

Voto 7 e mezzo

Il seguito

I Deep Purple sono ancora in attività, nel 2024. L’età dei musicisti è non verdissima, ma questo non scalfisce l’entusiasmo, la perizia e la voglia di suonare. Certo, la velocità, la tecnica non possono essere quelle di una volta, ma direi che ancora oggi, assistere a un concerto dei Deep Purple è una bella esperienza.

Chi scrive, non conosce benissimo gli ultimi album, in tutta sincerità, ma il sound e lo stile è ancora riconoscibilissimo, e credo che prima o poi approfondirò la conoscenza di questi lavori del nuovo millennio, magari acquistando ciò che ancora mi manca della loro discografia.

Attualmente la formazione è composta da Ian Gillan alla voce, Ian Paice alla batteria, Roger Glover al basso, Don Airey alle tastiere (dal 2012, anno della scomparsa di Jon Lord), Simon McBride alla chitarra (dal 2022, quando sostituisce Steve Morse, che aveva a sua volta sostituito Ritchie Blackmore dal 1994).

Articolo di Betelgeuse

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